Decreto Lavoro: Le novità introdotte per i contratti a termine: nuove causali per i contratti a tempo determinato di durata superiore ai 12 mesi.
In data 4 maggio 2023 è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il D.L. n. 48/2023 (c.d. “Decreto Lavoro”), in vigore dal 5 maggio 2023, con il quale il Governo, tra le varie misure adottate e per quanto in questa sede ci interessa, ha modificato nuovamente la disciplina dei contratti a tempo determinato, intervenendo sulle causali idonee a giustificare una durata del contratto superiore ai 12 mesi.
La disciplina previgente
Il Decreto interviene in modifica dell’art. 19 D.Lgs. 81/2015, che nella versione introdotta dal DL 87/2018 (Decreto Dignità) convertito in L. 96/2018 prevedeva una serie di causali di particolare complessità e di difficile applicazione.
Nello specifico, la norma vigente sino al 4 maggio 2023 disponeva che i contratti a termine, oltre ad un primo periodo “acausale” di 12 mesi”, potessero godere di una durata non superiore a 24 mesi – salvo diversa indicazione della contrattazione collettiva applicata – solo se giustificata da esigenze:
a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
b-bis) specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’articolo 51.
Le novità introdotte dal Decreto Lavoro n. 48/2023
L’art. 24 del Decreto Lavoro interviene sull’art. 19, modificando il primo comma ed abrogando il comma 1.1., prevedendo che – superati i primi 12 mesi di durata del rapporto – il contratto possa avere una durata superiore, comunque non eccedente i 24 mesi complessivi salvo diversa previsione contenuta nel CCNL adottato, soltanto in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:
a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 (ossia i contratti collettivi, nazionali, territoriali o aziendali, sottoscritti da organizzazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, ndr.);
b) in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti;
b-bis) in sostituzione di altri lavoratori.
Dunque, ferma restando la possibilità di stipulare contratti a termine “acausali” per i primi 12 mesi di durata, nel nuovo Decreto sono state confermate alcune delle causali già previste dalla disciplina previgente, ovverosia la sostituzione di altri lavoratori (assenti per malattia, infortunio, maternità o congedi parentali, congedi straordinari, ferie e permessi, aspettativa non retribuita ecc.) e quelle connesse ad esigenze previste dai contratti collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative, pur sottolineando come sia stato eliminato qualsiasi riferimento al fatto che le esigenze previste dai suddetti contratti collettivi debbano essere “specifiche”, come previsto dalla disciplina previgente.
Le novità introdotte dal Decreto Lavoro non modificano gli altri punti della disciplina del contratto a termine; pertanto, viene mantenuto il limite delle 4 proroghe, quello relativo al rispetto degli intervalli temporali tra due contratti a termine e della durata massima stabilita in 24 mesi comprensivi di proroghe o per successione di contratti, fatta salva la possibilità di concludere un ulteriore contratto a tempo determinato della durata di 12 mesi sottoscritto in deroga assistita, vale a dire presso l’Ispettorato del lavoro competente per territorio (art. 19, c. 3). Permane altresì l’obbligo di specificare in forma scritta, precisa e puntuale, le condizioni che giustificano il ricorso al contratto a termine o di eventuali proroghe e/o rinnovi e di utilizzare la prestazione del lavoratore esclusivamente per le specifiche ragioni indicate e in stretto collegamento con esse.
Sul ruolo della contrattazione collettiva
Quanto al ruolo della contrattazione collettiva, il rimando all’art. 51 D.Lgs. 81/2015 conferma come i contratti collettivi chiamati in causa risultano essere quelli appartenenti a qualsiasi livello di negoziazione (nazionale, territoriale, aziendale) e gli attori non possono che annoverarsi tra quelli “comparativamente” più rappresentativi, assumendo in tal senso un ruolo centrale sicuramente il contratto collettivo nazionale.
In sostanza, solo i contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o i contratti collettivi stipulati dalle loro RSA/RSU avranno la possibilità di “tipizzare” le causali che giustificano il termine oltre i 12 mesi.
Si tratterà tuttavia di comprendere se: (i) le eventuali causali regolamentate da un CCNL possano essere integrate da altre concordate da una contrattazione di secondo livello (ad esempio aziendale); (ii) eventuali previsioni già sancite dai CCNL possono oggi definirsi operative.
Sulle esigenze di natura tecnica, organizzativa, produttiva individuate dalle parti
Laddove il contratto collettivo non tipizzi alcuna causale e/o laddove non vi sia alcuna esigenza sostitutiva di altri lavoratori, fino alla data del 30 aprile 2024 la durata del contratto a termine potrà superare i 12 mesi nell’ipotesi in cui vi siano “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”.
Pertanto, viene lasciata alle parti – datori di lavoro e lavoratori – la facoltà di definire, seppur in via sussidiaria e dunque soltanto in mancanza di un accordo collettivo, quali siano le esigenze che rendono necessario il rinnovo o la proroga oltre i 12 mesi del rapporto a termine.
Per contro, sembra potersi affermare che se la contrattazione collettiva, di qualunque livello, disciplini delle specifiche causali, queste non potranno essere integrate o modificate dalle parti anche accedendo all’istituto della certificazione del contratto.
Sulle tecniche di redazione delle causali
Quanto alle modalità di redazione delle causali apponibili al contratto a termine, se da un lato viene introdotta maggiore flessibilità nell’uso di tale tipologia contrattuale, dall’altro non è preclusa al lavoratore la possibilità di metterle successivamente in discussione, ricorrendone le condizioni.
Pertanto, anche in questo mutato scenario normativo, sarà necessario prestare particolare attenzione alla redazione delle causali, facendo tesoro dei principi affermati dalla ormai consolidata giurisprudenza, secondo cui nel contratto occorra indicare in modo specifico “le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e l’utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa” (cfr. Cassazione civile sez. lav., 09/09/2019, n. 22496).
La causale deve, quindi, essere formulata in maniera tale che risulti l’analitica descrizione delle ragioni di natura organizzativa, produttiva o tecnica, avendo cura di esplicitare tutte quelle informazioni idonee a comprovare la temporanea e concreta esigenza lavorativa (ad esempio intensificazione dell’attività derivante dall’acquisizione di una specifica commessa) e la sua connessione con il rapporto di lavoro a tempo determinato. Solo così, infatti, il giudice del lavoro potrà verificare, ove ce ne fosse bisogno, l’autenticità delle ragioni indicate nel contratto.
Viceversa, la previsione di una causale generica, che richiama in maniera pleonastica e sommaria le esigenze organizzative, produttive o tecniche del datore di lavoro, non sarebbe idonea a consentire tale controllo giudiziale, con il conseguente rischio per l’azienda di vedersi trasformato il contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.
Da ultimo, preme evidenziare che l’art. 24 ha inserito il comma 5bis all’art. 19 D. Lgs. n. 81/2015, prevedendo che “Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni, nonché ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati dalle università private, incluse le filiazioni di università straniere, istituti pubblici di ricerca, società pubbliche che promuovono la ricerca e l’innovazione ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, di ricerca scientifica o tecnologica, di trasferimento di know-how, di supporto all’innovazione, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa, ai quali continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2018, n. 96”.
Al contrario, la disciplina sino a qui analizzata deve ritenersi valida anche per il lavoro somministrato che, come risaputo, salvo specifiche previsioni, adotta la normativa del contratto a tempo determinato.
Lo Studio rimane a disposizione per l’analisi di casistiche specifiche.
Prato, 15 maggio 2023